Il padre selvaggio di Balletto Civile. Un’intervista collettiva

foto Carlo Valtellina

La mattina dopo lo spettacolo Davidson di Balletto Civile siamo sedute davanti a un caffè con Maurizio Camilli, performer e autore, Confident Frank, performer, e Sebastjian Abdulahu, attivatore culturale della città di Bergamo delle comunità Rom e membro storico dei laboratori curati con il progetto lerem.eu.
Con noi abbiamo il foglio con le domande che insieme a tutta la redazione del laboratorio abbiamo immaginato dopo la visione di Davidson, performance ispirata a Il Padre Selvaggio, abbozzo di sceneggiatura scritta nel ’63 da Pasolini e che racconta di “un ragazzo nero sensibile e acuto, proveniente da una tribù dell’Africa e del suo incontro con un insegnante progressista e tormentato – una figura di frontiera alter ego dello stesso Pasolini – che cerca di dare ai suoi ragazzi un’istruzione moderna e anticolonialista”.

foto Carlo Valtellina

Come è nato il vostro incontro e come è nato da quell’incontro la voglia di creare lo spettacolo?

Maurizio Camilli: È nato perché come Balletto Civile portiamo avanti un progetto territoriale, I 10 Di/Versi”, che compie un’indagine tra società civile e atto poetico in diverse aree. Arriviamo in una città, individuiamo attraverso una call delle persone che pensano di avere qualcosa da dire in maniera particolare, appunto questi 10 Di/Versi, e poi costruiamo una performance. Diciamo che la provocazione è: voglio fare della mia vita un’opera d’arte, questo è il punto di partenza. 

Confident è arrivato tramite queste call. Quando l’abbiamo incontrato la prima volta sapeva danzare non da un punto di vista accademico ma in maniera molto informale, come vedevamo anche attraverso i video che caricava suTikTok, e lo abbiamo tenuto d’occhio. Poi dopo abbiamo fatto un laboratorio con gli adolescenti e l’abbiamo invitato di nuovo con tutti i suoi coetanei. A quel punto era il 2022 e c’era la ricorrenza di Pasolini. ERT Emilia Romagna Teatro ci aveva chiesto se avevamo in mente un progetto su Pasolini. Non volevamo fare una creazione prettamente teatrale; io avevo questo libro Il padre selvaggio, questa sceneggiatura inedita di Pasolini mai realizzata che stava lì da tanti anni e ho detto a Michela Lucenti di provare a fare un lavoro con Confident. Siamo partiti con un corpo a corpo fisico e poi invece durante le prove abbiamo abbiamo giocato anche su alcuni aspetti teatrali e Confident mi ha seguito. Allora abbiamo tentato anche l’aspetto più drammaturgico della parola.

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Confident Frank: All’inizio questo approccio con la parola mi ha spaventato! Il secondo giorno di lavoro con Maurizio avevamo fatto delle improvvisazioni danzate, quindi era un corpo a corpo: lui mi dava dei compiti, io li seguivo. A un certo punto ha iniziato a usare la parola e io all’inizio non rispondevo, non capivo se la stesse usando solo per dare più significato durante la costruzione. Poi ho visto che continuava a parlare e parlare e parlare e poi ad un certo punto ho visto che stava proprio recitando e mi ha fatto paura perché non l’avevo mai fatta come cosa! Poi però sono tornato a casa e mi son detto: “sai una cosa, comunque tu lo sai fare, puoi farlo!” e così il giorno dopo…ho usato la parola anche io! È da lì che abbiamo scoperto anche in me un’inclinazione attorale.

Confident come mai hai trovato la call di Balletto Civile, come ti sei avvicinato alla danza?

Confident Frank: È stato attraverso il fratello di una ragazza della nostra compagnia di Balletto Civile, Giulia Spattini; suo fratello era quello che gestiva la sala che utilizzavo per ballare con un gruppo di amici; noi ballavamo perché ci piaceva, non ci chiamavano ancora a serate, locali, io ballavo perché mi piaceva ballare.

Maurizio Camilli: Poi avevano iniziato a chiamarli per andare a fare serate nelle discoteche.

Confident Frank: Si, avevamo un gruppo che però poi, piano piano, si è un po’ sciolto. Alcuni sono andati a fare moda, altri hanno smesso. Io ho trovato questa strada con Balletto Civile e ho continuato.

foto Carlo Valtellina

Nello spettacolo è molto presente la parola “utopia”. Come mai siete partiti da questo termine e come l’avete declinato nella costruzione dello spettacolo?

Confident Frank: La prima volta che ho sentito la parola Utopia è stato sempre attraverso delle cose informali, perché era il nome di una carta di Yu-Gi-Oh, questo cavaliere dorato, maestoso. Però un giorno ho provato a cercare la parola ‘utopia’, e mi sono confrontato con il significato reale e con la relazione che ho io con questo significato: un luogo irrealizzabile, una specie di paradiso terreno… utopistico! Perché essere felice al cento per cento è impossibile per me. Perché hai sempre qualcosa, magari non nel tuo io esterno, ma inconsciamente ci può essere un trigger che può far partire la reazione per cui ti rattristi o senti sentimenti negativi. Per questo il cento per cento della felicità non esiste; il novanta per cento è ideale e si può raggiungere, però un ottanta per cento mi sembra già un ottimo obbiettivo quotidiano da raggiungere!

È tua quella parte di testo nella quale parli di questa percentuale impossibile di felicità?

Confident Frank: Si. 

Maurizio Camilli: La cosa bella de Il Padre Selvaggio è che praticamente ha pochissime parole, ha solamente immagini. Quasi l’unico dialogo, che poi è quello che facciamo, è quello sulla poesia, in cui Davidson chiede al maestro che cos’è la poesia, e il maestro effettivamente gli risponde: “Tu lo sai, voi lo sapete che cos’è la poesia, perché ce l’avete dentro”. E dopo le insistenze del maestro alla fine Davidson fa un pezzo danzato e lui dice “Ecco, vedi che ce l’hai dentro la poesia”. E questa insomma è la parte ancorata alla sceneggiatura. Volevamo sviluppare da parte nostra, nel nostro rapporto, qualcosa di simile per cui abbiamo iniziato a improvvisare su questo tema. È uscita così, improvvisando. Nel rapporto tra me e Confident, tra il maestro e Davidson, ragionare in questi termini. Questa cosa dell’utopia viene molto fuori nella sceneggiatura, nella descrizione di Pasolini, nelle note, è data come una caratteristica propria del maestro, che è utopistico. Il maestro arriva con tutto un suo carico, un bagaglio — parliamo dagli anni 60, nel momento in cui Pasolini l’ha scritto — di progressismo, di volontà di arrivare in Congo, dove è ambientato Il Padre Selvaggio, e cercare di intervenire su una realtà che è difficilissima, che ha dei problemi enormi e quindi da quel punto di vista probabilmente Pasolini lo mette nel campo dell’utopistico. Con Confident abbiamo cercato di sviluppare in quel modo questa cosa.

La prossima domanda era proprio quanto testo è di Pasolini e quanto testo è vostro e in qualche modo avete già risposto.

Maurizio Camilli: Il finale è Pasolini, totalmente, c’è Alì dagli occhi azzurri, la profezia. Anche lì in quel caso, per esempio, nel finale del Padre Selvaggio c’è scritto che a un certo punto Davidson arriva e recita al maestro un componimento bellissimo, ma Pasolini non lo scrive. Un componimento che riempie di gioia il maestro perché finalmente capisce che è riuscito a passare qualcosa. A quel punto mi sono chiesto io drammaturgicamente che cosa avrebbe potuto fare veramente Confident, quale sarebbe potuta essere per lui la poesia, andando a pescare in Pasolini; la profezia fatta da lui così, con questo suo accento afro-modenese, secondo me è bellissima.  Ci abbiamo lavorato relativamente poco, solo per rendere più ritmico l’andamento, però non assolutamente sulla dizione; mi piaceva che fosse proprio fatta con tutte le sue sonorità.  

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A proposito di sonorità, qualcuno della redazione ieri chiedeva dove siete nati.

Maurizio Camilli: Allora io sono nato a Treviso, a Valdobbiadene, ma abito a La Spezia.

Confident Frank: Io sono nigeriano, cioè io sono nato a Modena in Emilia-Romagna, però sono di origine metà nigeriana e metà liberiana.

C’è una domanda più complessa, che è uscita ieri sera, che dice: c’erano dei momenti inaspettati in cui non sapevo quali movimenti avrebbero avuto risonanza nell’altro, in alcuni momenti c’era come un’eco. Quali momenti e parole rimangono nell’altro e  hanno effetto sul corpo dell’altro? C’erano anche momenti di imitazione tra voi, cosa avete scoperto sul vostro corpo imitando o rispondendo al corpo dell’altro?

Maurizio Camilli: Bello.

Confident Frank: Allora la prima cosa che posso dire è che mi sembra molto evidente che abbiamo una sorta di chimica in scena io e lui, che è speciale. Maurizio sia di somiglianza fisica che strutturalmente mi ricorda molto mio padre, cioè io lo vedo come “mio padre bianco”, cioè assomiglia davvero tantissimo a mio padre! Se mio padre fosse bianco, sarebbe Maurizio! Riconosco quel tipo di fisico, di carne. Era molto facile da subito sentirmi a mio agio, ma all’inizio c’è stato un problema dovuto al fatto che i nostri tempi erano diversi. Perché io sono partito molto esplosivo, molto dinamico. E lui invece era molto più controllato di me. Però a forza di lavorarci su questa cosa qua secondo me l’abbiamo sbloccata. Ci siamo contagiati l’un l’altro. A volte ci basta anche soltanto uno sguardo… in scena abbiamo come una sorta di telepatia. Non abbiamo bisogno di dire nulla, ma non solo perché sappiamo ormai conosciamo a fondo lo spettacolo, sentiamo quello che sta per fare l’altro in ogni momento. 

Sebastijan Abdulahu: C’è un feeling tra di voi.

Confident Frank: Sì, sì, sì, assolutamente, più che fisico, io lo sento molto spirituale.

Sabastijan Abdulahu: Di pelle…

Maurizio Camilli: Sì, anche su questo abbiamo cercato di creare. È bella la domanda perché coglie un aspetto interessante dello spettacolo. Abbiamo cercato di creare tutta la prima parte, diciamo i dodici minuti della sonata di Bach, durante i quali in qualche modo è Confident che viene da me dal punto di vista anche del linguaggio fisico, che è un po’ anche l’andamento della sceneggiatura; io arrivo ma sono io che cerco di portarlo a casa mia e poi nel corso della sceneggiatura succede il contrario, che invece il maestro deve cedere e deve avvicinarsi lui a Davidson e succede anche questo all’interno dello spettacolo. In qualche modo partiamo che Confident cerca di fare una mia danza e man mano lui mi contamina tant’è che c’è proprio un certo punto nel quale ci scambiamo, ci diamo il testimone; non faccio la sua danza però sicuramente lascio alcune cose da cui sono partito, quindi c’è anche quell’aspetto lì, e sono contento che l’abbiate colto.

foto Carlo Valtellina

Tu e Confident avete avuto modo di provare davvero quest’esperienza?

Maurizio Camilli: Sicuramente c’è una vertigine in questo spettacolo data dal fatto che comunque io sono maestro di Confident. Io però non sono mai stato in Africa come invece si dice nello spettacolo e quindi rispetto a questo aspetto no. Però sicuramente il tipo di rapporto, proprio sull’incontro che sempre, lo sappiamo, è molto difficile, al di là di tutto l’incontro tra la cultura, il pregiudizio profondo, non il primo pregiudizio superficiale, riuscire ad abbatterlo, riuscire a lasciarselo dietro, richiede una relazione; e quindi da quel punto di vista sì, il percorso di avvicinamento e il tentativo di conoscenza è reale, è autentico.

Confident Frank: Sì, è una cosa che si vede molto nello spettacolo, noi alterniamo la sceneggiatura di Pasolini con dei fatti comunque di vita reale. Soprattutto il mio personaggio. Io vado a raccontare delle cose che sono successe veramente. Diciamo che in Davidson ci sono tante cose in cui io mi ritrovo; per esempio mi dicono spesso questa cosa: “ma tu quando c’è da essere nero sei nero, quando c’è da essere bianco sei bianco, però sei sempre tu!”. Diciamo che per esempio Davidson a un certo punto dice “la poesia è una roba da bianchi”.  Io la sento molto vera questa frase perché alla fine la poesia che si va a studiare è quella dei bianchi. In realtà poi quello che dice lui, che noi africani abbiamo la poesia dentro, è proprio parte della nostra cultura attraverso il canto, la danza, è verissimo. Per esempio i nigeriani hanno questa sorta di parlare in metafora che è molto poetico; usiamo molti modi di dire, per esempio se mi è successo qualcosa di brutto si dice: “I miei nemici hanno vinto oggi”, alludendo a qualche maledizione che mi hanno mandato, o se un figlio sta facendo il testardo con i suoi genitori si dice “Ah, sei diventato così grande che adesso hai le ali”. Parliamo molto in metafora.

Sebastijan Abdulahu: Questo è molto interessante, perché anche tra noi, tra i rom, ma io conosco anche albanesi, serbi, macedoni, sono tutti popoli che parlano molto in metafora, con proverbi, quindi mai troppo direttamente. Ho anche tanti amici africani e ho sentito questa cosa qua, non ero molto convinto e invece adesso che me lo dici, si! 

Confident Frank: Si, per me è anche molto specifico del popolo nigeriano. Noi nigeriani siamo soprannominati “i giganti dell’Africa” perché si dice che il nigeriano ha un ego smisurato, perché siamo molto portati all’arte in generale. Basti pensare anche soltanto alle chiese Gospel in Nigeria, completamente diverse ad esempio dalle chiese americane. Da noi quando c’è la parte di Worship and Prayer, ovvero adorazione e preghiera, si mettono delle musiche che come tema hanno un beat afro e quindi noi ci mettiamo a ballare afro, abbiamo questa energia qui…

Maurizio Camilli: La cosa curiosa è che il papà di Confident è un saldatore, ma è un pastore protestante, quindi c’è anche questo aspetto di spiritualità.

foto Carlo Valtellina

Voi ci credete veramente in questo finale che ci avete presentato, rispetto alla possibilità di un passaggio di insegnamenti? 

Maurizio Camilli: Dal punto di vista del passaggio di consapevolezza che fa lo studente, ci credo assolutamente. Ci credo al di là, insomma, del rapporto tra me e Confident; forse c’è una mia parte utopistica, non lo so, però ci credo, ci voglio credere, che possa succedere un passaggio di insegnamenti, che questa operazione maieutica avvenga e quindi chi sta di fronte a te si può emancipare. Alì dagli occhi azzurri è una profezia, in quanto tale, non sai mai quando veramente si avvererà, se si è già avverata, se deve ancora avverarsi. Quindi è evidente che Pasolini quando l’ha scritta aveva una capacità visionaria incredibile. Alcune cose possono anche essere esagerate se le vuoi vedere con gli occhi di oggi, in realtà altre le ha esattamente prese, quindi credo anche in quello. Credo al principio che ha ispirato Pasolini nella scrittura della profezia; a me piace quando dice distruggeranno Roma. Non credo che avverrà mai questa cosa, evidentemente. Però quel tipo di immagine, loro che partono col Papa e se ne vanno su con le bandiere di Trotsky al vento, è una bellissima immagine, non credo che avverrà mai. Però è una profezia, quindi chi lo sa, potrebbe ancora avvenire, non è detto.

E poi c’è un’ultima domanda: e adesso, dopo questo spettacolo, dove andate?

Maurizio Camilli: Tra una settimana cominciamo un altro lavoro insieme. Nel frattempo Confident ha fa un proprio progetto molto bello, perché appunto il vero “dopo di Davidson” è questo progetto che hanno fatto. Ana Balboni Rodrigues, Confident Frank, Cipriano Junior Riccardo e Seit Kibja hanno fatto questo progetto che si chiama Fathers, hanno vinto il bando Siae; noi da fuori, come Balletto Civile, abbiamo veramente cercato, non dico neanche di evitare gli errori, perché a volte gli errori vanno pure fatti, ma giusto di instradarli. 

Invece il nuovo lavoro che cominciamo la settimana prossima, si chiama Eclissi; è la prima volta che Balletto Civile sta fuori e sono dentro tutti ragazzi dell’età di Confident. Abbiamo fatto una call e un’audizione, abbiamo selezionato sei, sette persone con un musicista, e debutterà ad Oriente Occidente, per cui sarà per Confident un passaggio ulteriore perché finora è sempre stato in qualche modo protetto, con Davidson, e comunque nell’altro progetto che era con giovani che avevano tutti più o meno la sua esperienza. Ora invece si ritroverà a fare un salto con giovani performer che escono dal Piccolo, che hanno fatto le accademie, danzatori, quindi per lui sarà una sfida e poi si diploma.

Confident Frank: Per me diciamo che questo progetto è importante per fare un salto di qualità, perché soltanto dall’audizione ho capito… io lo sapevo che mi mancava l’esperienza. Però vedere tutti quei danzatori che venivano dall’accademia, da varie scuole, che hanno avuto comunque dei percorsi di formazione vera e propria. Mi sono sentito un po’ un pesce fuor d’acqua; però comunque io sono andato là letteralmente per imparare, assorbire; il fatto che adesso ho un maggiore controllo corporeo è perché ho visto questi ragazzi come si muovevano e intanto nella mia testa io segnavo questo e questo e questo e questo e questo e questo e questo.

domande dell’intervista a cura della Re.M di Up To You Festival 2024 — qui i e le partecipanti
intervista condotta da Silvia Baldini, Sebastijan Abdulahu, Luca Lòtano

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