REM Up to you. Frammenti di sguardi su Sindrome Italia. O delle vite sospese – Tiziana Francesca Vaccaro

Comun Nuovo, Palazzo Benaglio. In scena Sindrome Italia. O delle vite sospese per la rassegna Lo Spettacolo Infinito di Qui e Ora Residenza Teatrale

La RE.M/REdazione Multi.lingue, visioni, linguaggi di Up To You continua a riunirsi, dopo mesi dalla fine del festival Up To You, per seguire alcuni appuntamenti della rassegna Lo Spettacolo Infinito, curata da Qui e Ora Residenza Teatrale sul territorio della provincia di Bergamo. Insieme a Luca Lòtano coordina la RE.M Silvia Baldini di Qui e Ora.

illustrazione Elena Mistrello

Frammento 1. Valeria e Renny – a cura di Valeria Tacchi e Renny Condori

Il 24 novembre 2022 c’è la visione di Sindrome Italia. O delle vite sospese di e con Tiziana Francesca Vaccaro, spettacolo che parte dalla sindrome depressiva che affligge le donne dell’Est venute a lavorare in Italia come badanti e racconta la vita di Vasilica e va ad indagare i sogni, le contraddizioni, la realtà di questo mondo. 

Io mi chiamo Valeria, ho 27 anni, sono nata in Italia a Bergamo, vivo a Bergamo, nella mia vita ho sempre vissuto nella condizione di privilegio di non sentirmi “migrante”. Con la Re.M. Up to You ho visto insieme a Renny lo spettacolo Sindrome Italia.

Io mi chiamo Renny, ho 27 anni, sono nata in Bolivia a Oruro, vivo a Bergamo, anche io mi sento una privilegiata e non mi sento migrante, però sono migrante. Con la Re.M Up To You ho visto lo spettacolo insieme a Valeria. Valeria, ora che lo spettacolo è finito, mi guarda. Mi dice che nella sua testa si sovrappongono mille pensieri, perché lo spettacolo ha parlato di migrazione, di dolore, di sopravvivenza, di separazione; e davanti a lei ci sono io. Prima Vasilica, ora io. Valeria si sta chiedendo cosa si prova a vivere sulla sua propria pelle quello che abbiamo visto insieme, ma mi dice che ogni domanda che le viene in mente le sembra sbagliata, banale; allora alla fine decido di raccontarle qualcosa che mi riguarda, che riguarda lo spettacolo, così che poi possa riguardare anche noi.

Appena io sono arrivata in Italia sono stata un mese a Venezia, dove ho speso tutti i miei soldi, poi per forza di cose ho dovuto trovare un lavoro.

Che lavoro hai trovato?” mi chiede Valeria.

“Badante” le dico. Valeria è sorpresa. Io e lei siamo coetanee. “E tu, Valeria, hai mai pensato di dover fare la badante?”.

Mai“, risponde. “Per me ‘trovare un lavoro qualsiasi’ vuol dire fare la baby sitter, la cameriera, la commessa… Ora non riesco a far altro che ripensare allo spettacolo, al disagio di essere un’estranea in casa d’altri, del prendersi cura di qualcuno che ti vede come un’intrusa, della forza che ci vuole a continuare per anni a fare questo lavoro“.

Valeria si ferma. Non so bene perché, ma mi chiede di Venezia. “Ah proprio primo lavoro, ma a Venezia?” Io rispondo di no, che il mio primo lavoro era a Merate con una signora che aveva l’Alzheimer. Poi, grazie a mia mamma, che aveva il contatto di questa signora a cui serviva una persona giovane che la aiutasse di notte, sono andata a Merate. 

Tu facevi la notte, quindi non eri da sola a gestire la signora?” mi chiede Valeria. Le rispondo di no, che c’era un’altra ragazza durante il giorno ma io facevo il lavoro più pesante perché la signora dormiva di giorno e restava sveglia la notte… Mi erano venute delle occhiaie pazzesche! Avevo 23/24 anni. Mai mi dimenticherò, uno dei miei primi giorni, quando la signora è andata in bagno da sola, io non sapevo di dover andare con lei, e quindi ha sporcato tutto: pavimento, pareti… E poi per forza ho dovuto pulire io. Così ho capito di dover controllare sempre, anche in bagno.

Non riesco a immaginare cosa avrei fatto io” mi dice Valeria, “quanto sarei resistita?“. Poi ripensiamo alla storia di Vasilica nello spettacolo, al suo viaggio, chissà se lei era consapevole che avrebbe fatto la badante una volta arrivata in Italia o se la narrazione distorta delle sue amiche e compaesane avesse lasciato spazio all’immaginazione, idealizzando l’Italia come fonte di grandi guadagni, senza parlare della condizione reale di disagio in cui questi soldi vengono guadagnati. Ma Vasilica non è qui con noi, e allora Valeria lo chiede a me.

No, io non mi sarei mai aspettata nella mia vita di arrivare in Italia e fare la badante. Ho lavorato in Argentina come supervisore, ero bravissima a lavorare al computer. Arrivando in Italia ho dovuto ricominciare tutto da capo, non è stato facile però andava fatto, per necessità. E tu, Valeria, hai mai lasciato casa? Hai mai ricominciato da capo?

Io al massimo ho vissuto sei mesi in Francia” mi risponde “in Erasmus, facendo sempre affidamento sulla mia famiglia; non so cosa significhi lasciare tutto alle spalle, cosa ti spinga ad accettare condizioni che non avevi mai preso in considerazione; per Vasilica era il desiderio di garantire ai suoi figli una vita migliore, per me… non lo so, posso solo provare a immaginare quale sarebbe il mio problema più grande nel ricominciare tutto da capo: perdere chi sono, non conoscere più chi mi sta vicino, solitudine, fatica ad integrarsi. Tu almeno parlavi già italiano quando sei arrivata in Italia?“.

Le rispondo ancora di no. Con mia mamma e mio fratello, che erano già qui, parlavo spagnolo. Poi sono andata alla scuola di italiano, ancora adesso faccio un po’ fatica con alcune parole e sento di non riuscire ad esprimermi bene come in spagnolo

Poi ripensiamo ancora a Vasilica che impara l’italiano lavorando a lungo con una signora. Io, invece, dopo solo tre mesi che stavo a Merate ho dovuto cambiare perché la donna è stata ricoverata. La mia forza e la mia fortuna sono sempre stati mia mamma e mio fratello, non avevo fretta di trovare un nuovo lavoro perché loro lavoravano e guadagnavano quindi sono stata tre o quattro mesi a casa e ho potuto aspettare e scegliere un altro lavoro, senza accontentarmi, in cui lo stipendio fosse buono.

Valeria adesso sembra sollevata. “Allora poi è arrivato un altro lavoro!” mi chiede, “cosa sei andata a fare?“.

La donna delle pulizie. In una casa di ricchi. Ero lì per togliere la polvere e per controllare che non entrasse nessuno, e basta. Non era casa mia ma la conoscevo bene, lì sono rimasta solo un mese, in sostituzione di un’amica che ha fatto il mio nome. Ho dovuto imparare tutto da capo: non sapevo neanche stirare! Ma ero lanciata, avevo e ho voglia di imparare. Lavoro fisso: giorno e notte, avevo una stanza mia nella loro casa, stavo lì dal lunedì mattina al sabato pomeriggio. Io ero sempre in casa, loro solo a volte. Però loro avevano telecamere in tutta la casa, controllavano a distanza. Lunedì dovevi pulire questo soggiorno, martedì la camera, mercoledì le scale… Poi una volta finito il mese di sostituzione loro hanno fatto il mio nome ad altre famiglie e così ho trovato nuovi lavori. Funziona così il potere dei ricchi. Qua in Italia funziona così: il passaparola ha molto peso. Ma i lavori che trovi tramite il potere dei ricchi sono pagati meglio.

Ritorna con noi l’immagine di Vasilica, della casa che ha costruito con i soldi che ha guadagnato in Italia e alla comunità di donne dell’Est che lavorano sul passaparola. A tutte le donne di servizio che lavorano in moltissime famiglie, che cercano di entrare nel giro giusto dove c’è davvero da guadagnare. 

Valeria poi mi fa un’altra domanda: “E rispetto alla sensazione raccontata nello spettacolo, di non sentirsi mai a casa, di essere in Italia e di voler tornare nel proprio paese e poi di tornare e pensare ancora all’Italia, tu hai mai sentito queste sensazioni?“.

In realtà no, sono molto curiosa, mi piace esplorare, alla fine tutto il mondo è paese. Però cerco sempre una condizione migliore: luogo, vita, lavoro. Sono sempre stata ambiziosa.

Alla fine sei contenta di essere in Italia?

In parte sì, in parte no. Sicuramente ho una vita migliore di quella che avevo nel mio paese ma so che ci sono altri paesi che possono offrire possibilità migliori, tipo Londra, Dubai, Svizzera, Olanda.

Questa è un’idea che hai sempre avuto o conosci qualcuno che ha seguito queste strade?

Conosco delle persone che sono già lì e mi raccontano che si trova lavoro subito.

Invece in Italia, per chi arriva, si fa fatica?

Si fatica molto a trovare lavoro. Ma come la metafora dell’acqua, nello spettacolo, che mi immaginavo essere fredda, non bisogna avere paura di lanciarsi. Quando decidi di migrare devi avere il coraggio di andare avanti, perché lo stai facendo con un obiettivo.

Io invece l’ho vista come una cosa spaventosa, quella dell’acqua, che cancella le tracce, che nasconde. Le impronte sulla spiaggia che vengono cancellate dalle onde. Quella cosa che in un attimo cancella quello che ti sta dietro“. Mi dice Valeria, che mi chiede poi quale è la cosa che mi è rimasta più impressa dello spettacolo.  

Una delle cose che viene detta è che la prima parola imparata dalla protagonista appena arrivata in Italia è MUTA. Anche per me è lo stesso, appena ho iniziato a lavorare le persone volevano che stessi zitta ma ognuno deve avere la possibilità di dire quello che pensa, per crescere. Per noi è una costrizione: le persone migranti devono crescere, perché stiamo lasciando tutto alle spalle.

Mi chiamo Valeria, ho 27 anni, sono nata in Italia a Bergamo, vivo a Bergamo, nella mia vita ho sempre vissuto nella condizione di privilegio di non sentirmi migrante. Durante questa conversazione con Renny mi sono sempre sentita in difetto, mi sembrava sempre di avere una visione ristretta; di fare sempre una domanda sbagliata, scontata; di sorprendermi delle cose banali; di avere una percezione della realtà distorta non avendo una conoscenza diretta di queste storie. Mi sono trovata spiazzata davanti alla categorizzazione ricchi/poveri, perché dovendo collocarmi io sarei sicuramente nei ricchi, anche a casa mia viene la signora delle pulizie 4 ore a settimana. E per forza di cose mi sono interrogata sul rapporto con lei: le riconosco il rispetto di una persona alla pari? è un rapporto lavorativo subordinato? Mi sono mai chiesta da dove viene, perché è qui?

Mi chiamo Renny, nessuno conosce le battaglie profonde che combatto. A volte può essere difficile, ma è quello che mi ha reso più umile e più forte. Ho imparato che devo essere dura per sopravvivere a questo mondo. Non mi è mai piaciuto essere un peso per gli altri. Ho imparato a fare attenzione di chi fidarmi e a chi raccontare i miei problemi. Mi sono resa conto che non tutti quelli che mi sorridono sono miei amici. Sono diventata abbastanza forte per affrontare le cose a modo mio, proprio come il sole, posso essere sola e continuare a brillare.

illustrazione Elena Mistrello

Frammento 2. Ma l’acqua che usa in scena è vera! – a cura di Anita Galeazzi

“Ma l’acqua che usa in scena è vera! Chissà che freddo!”. È il primo pensiero che mi è venuto in mente vedendo in scena Tiziana Vaccaro, nelle vesti di Vasilica, in Sindrome Italia. O delle vite sospese. Secondo pensiero: una malattia che porta il nome di un paese, il paese in cui ho vissuto per tutta la vita e in cui la protagonista dello spettacolo è costretta a restare per lavoro, anzi, per pura sopravvivenza. Lo spettacolo ripercorre la vita di Vasilica: una donna che decide di lasciare la sua Romania per inseguire l’Italian Dream e trovare un lavoro per aiutare la sua famiglia. Quello che però doveva essere un sogno (breve) di speranza, si scontra con la cruda realtà. Vasilica è chiamata ad affrontare le sfide che molte persone straniere si trovano ad affrontare: dalla comprensione della lingua a quella – forse addirittura peggiore – dei modi di vivere italiani. E così la vita in Italia è diventa una situazione permanente, mentre i ricordi di infanzia nella campagna rumena sempre più romanzati, lontani, congelati, scollati dal presente, proprio come Vasilica.

Ho assistito per due volte a questo spettacolo, in due location completamente diverse. Durante la prima serata ero in una sala piuttosto grande, seduta verso il fondo. Tiziana era una lontana figura che narrava la sua storia. Si percepiva e comprendeva la sua esigenza di raccontare quella storia. La seconda volta che ho visto lo spettacolo mi sono trovata in una location del tutto differente, a Comun Nuovo presso Palazzo Benaglio. Ero di fronte a Tiziana, a un passo da lei, potevo vedere nel dettaglio ogni sua espressione, sentire lo spostamento d’aria al suo passaggio. Se avessi voluto, avrei potuto toccare con mano il personaggio di una storia. In uno spazio così lo stesso spettacolo si è trasformato: da un’eco di testimonianza è diventata una affermazione sulla propria esperienza, la vita che Vasilica ha vissuto. Tutto è stato reso più crudo, più umano, più reale. Il pubblico presente è diventato un testimone a sua volta di questa storia, chiamato a riflettere su quanto quello a cui avesse appena assistito gli tornasse familiare. A fine spettacolo mi sono accorta di come l’acqua con cui l’attrice si era bagnata in scena aveva raggiunto la mia borsa, mi aveva fatto sentire il freddo di quella sua condizione. Mi sono resa conto che io c’ero già stata a un passo da una come Vasilica, che forse tutte le persone fra il pubblico c’erano già state…

illustrazione Elena Mistrello

Frammento 3. Il lavoro di ricerca – a cura di Valeria Tacchi

A fine spettacolo molte domande sono sorte spontanee: quanto c’è di vero nella storia che abbiamo appena sentito? Perché scrivere un testo su una sindrome così particolare? Ci saranno dei parallelismi tra la storia di Tiziana e quella di Vasilica?

Grazie all’incontro conclusivo con l’autrice abbiamo scoperto che Vasilica esiste davvero, e che la storia raccontata nello spettacolo è proprio la sua. E questa storia viene raccontata anche in un fumetto, “Sindrome Italia, storia delle nostre badanti”, sceneggiatura di Tiziana Francesca Vaccaro e disegni di Elena Mistrello. Qui Tiziana racconta il percorso di ricerca che l’ha portata a parlare di questo argomento, abbiamo pensato di condividere con voi un estratto.

L’inizio

Chi sono queste donne che arrivano dalla Romania, dalla Polonia, dall’Ucraina, dalla Moldavia, cioè chi sono prima di essere badanti? Chi sono state? Cosa hanno lasciato a casa? Cosa immaginano per il futuro?

È il 2018, vivo in Italia e queste domande iniziano a frullarmi in testa ogni volta che incrocio una delle mie vicine di casa. Sono donne ucraine, abitano tutte insieme nell’appartamento accanto al mio. Cinque in 50 metri quadrati. Al quinto piano, senza ascensore. Un sali e scendi faticoso per chi ha lavorato 24 ore senza fermarsi.[…] Sono donne che abbandonano la propria famiglia per occuparsi della famiglia di qualcun altro. In Italia sono 1.700.000 le donne migranti: filippine, sudamericane, ucraine, polacche, moldave, rumene. Grazie al passaparola tra connazionali sono incoraggiate a partire. Spesso scelgono di andarsene di notte, mettendo a letto i figli come tutte le sere, e poi loro si sentono dire al mattino: “La mamma non c’è stamattina, è partita, qualche settimana e poi torna”. Le donne intanto arrivano in Italia, sole. Trovano presto lavoro e convivono con l’anziano fino a quando muore. E tutto ricomincia, nella solitudine e troppo spesso nel dolore. Sono più o meno queste le parole con cui mi ha risposto Silvia Dumitrache, fondatrice di ADRI (Associazione Donne Romene in Italia) e attivista per i diritti umani. Conosco Silvia una fredda mattina di febbraio, due tazze di tè bollente, tre ore ininterrotte di racconti. Silvia, impegnata in attività di sostegno ai diritti della famiglia transnazionale e dei suoi membri nei paesi di origine e destinazione, è stata la prima a parlarmi del fenomeno medico-sociale Sindrome Italia: “Mi sto battendo da anni affinché venga considerato a tutti gli effetti una malattia” – mi dice con il fuoco negli occhi. “La cosa incredibile è che né in Romania né in Italia se ne parla, nessuno chiede, nessuno sa. Perché è più comodo girarsi dall’altra parte se la cosa non riguarda personalmente![…]

Quel giorno inizia il mio viaggio di ricerca e creazione. Il progetto nasce dall’idea, dal desiderio, dal senso di responsabilità come artista, di raccontare senza filtri un pezzo del nostro tempo, della nostra storia. Come si diventa oggi dopo una migrazione? Dove va la vita, dopo? Come ci si trasforma in un paese straniero, lontane dal nucleo famigliare e dai propri affetti?

La Sindrome Italia è l’espressione del linguaggio della sofferenza che vivono donne migranti collocate in posizioni di forte marginalità sociale. Utilizzare quest’espressione, che fa direttamente riferimento a un’ingente sofferenza psicologica, significa che queste migranti dell’Est Europa sono effettivamente colpite e afflitte da una condizione psicofisica che non trova eguali nel passato. Una sofferenza che matura – più o meno latente – in Italia, nel paese dove si va, ma esplode nel luogo in cui si ritorna, a “casa propria”. Il mio lavoro di ricerca viaggia su due binari paralleli: la raccolta del materiale medico-scientifico da un lato, e di interviste, testimonianze, storie dall’altro. Silvia Dumitrache diventa il mio ponte. Conosco Ludmila, Veneta, Stella, e altre ancora, tutte badanti e colf, in Italia da anni. Ansia, paranoia, depressione. E bipolarismo, schizofrenia, tendenze suicide. Questi alcuni dei sintomi che le accomunano, legati alla Sindrome Italia. Alcune – confidano – non sanno neanche cosa sia, ma a volte stanno male e non capiscono perché. D’altronde qui in Italia non hanno tempo (e fiducia) per andare dal dottore, e lì, a casa loro, in Romania, il costo dei servizi socio-sanitari è troppo alto e non esiste alcun tipo di sostegno economico alle migranti che hanno dovuto lasciare il proprio paese. “Conosco però una donna che è tornata” – mi dice un giorno la Dumitrache. “Lei ha fatto il percorso completo, e quando ha capito che c’era qualcosa che non andava, che lì, proprio a casa sua, si stava consumando, ha deciso di partire ancora”. Il suo nome è Vasilica.

Con Vasilica, la protagonista di questa storia, a lei liberamente ispirata, inizia un vero e proprio scambio di racconti, ricordi, vita, lungo un anno. Non riusciamo mai a vederci dal vivo, siamo troppo lontane. Ci serviamo di Skype, strumento che tante donne come lei conoscono bene, perché è l’unico che ha permesso loro di “vedere” i figli durante gli anni in Italia. La condizione della donna migrante, il lavoro mal pagato, il tempo che viene negato. Le confidenze, i dolori, gli strappi. Con la vita di Vasilica addosso, inizio a scrivere la drammaturgia dello spettacolo teatrale Sindrome Italia. O delle vite sospese.” Tiziana Francesca Vaccaro

illustrazioni Elena Mistrello

Tutte le illustrazioni sono tratte dal libro “Sindrome Italia. Storia delle nostre badanti” di Tiziana Francesca Vaccaro (autrice) ed Elena Mistrello (illustratrice), edizione Becco Giallo, 2021.

Frammenti di sguardi a partire dalla visione di 

SINDROME ITALIA. O DELLE VITE SOSPESE

di e con Tiziana Francesca Vaccaro
musiche originali Andrea Balsamo
visual concept e luci Eleonora Diana
illustrazione Elena Mistrello
in collaborazione con Qui e Ora Residenza Teatrale
con il sostegno di Officine Papage, Trac-Centro di Residenza Pugliese / Bottega degli Apocrifi- Manfredonia, r-Esistenze (RC) / DRACMA teatro

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