La parola teatrale a scuola. Intervista a Giorgio Sena

Dopo aver visto con la scuola di italiano Asinitas lo spettacolo Famiglia, scritto e diretto da Valentina Esposito con Fort Apache Cinema Teatro, abbiamo fatto qualche domanda a Giorgio Sena, insegnante di italiano.

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Che ruolo ha e può avere il teatro in una realtà come Asinitas che nella narrazione costruisce il territorio di apprendimento della lingua?
La didattica della lingua di Asinitas parte, in effetti, dal desiderio di sollecitare, educare all’uso narrativo della lingua (il parlare innanzitutto per raccontare e ascoltare storie), partendo dal presupposto che Narrare sia un “uso della lingua”, un’esigenza fondamentale dell’umano. In questa direzione, il teatro ci spinge un passo oltre. La parola teatrale è eminentemente narrativa, ma è al contempo una parola collettiva, una parola “pubblica”, innanzitutto perché è detta in pubblico, al cospetto della città. Il fare e l’assistere al teatro è un così un atto eminentemente politico, fin dalle rappresentazioni nell’agorà di Atene delle tragedie.
Dire una parola in pubblico, su un palco – o anche solo in un laboratorio -, specie se è in una lingua nuova, è un potente riprendersi una presenza e un corpo. Ne abbiamo parlato tante volte: i migranti sono i “doppiamente assenti”. La presenza davanti agli occhi degli altri, su un palcoscenico, dove è indispensabile proprio la parola – per quanto piccola – di ciascuno, è un atto forte che rimette alla presenza, alla cor-responsabilità di costruire qualcosa con e insieme agli altri; di partecipare ad un processo collettivo, proprio ciò che i nostri studenti, messi ai margini, spesso non possono più fare significativamente, magari per anni. E farlo davanti al pubblico degli italiani che vengono a vederti a teatro è prendere una “doppia presenza”, qui e ora…non potete più non vederci.
Poi c’è l’uso “strumentale”: una prova teatrale dà peso all’esattezza della lingua, alla sua efficacia. Pone i nostri studenti davanti allo sforzo di soppesare, provare e riprovare, lavorare di esattezza e per un compito ambizioso perché è espressivo – anche se apparentemente inutile -, a non tirare via la lingua e l’espressione. Il “divieto della sciatteria” può apparire come un’ imposizione, ma io credo che sia una prova stimolante per i ragazzi, che possa aiutarli a fare un passo di consapevolezza.

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L’esperienza da spettatori. Quali i limiti, quali le possibilità? Come agire?
Proprio perché il teatro è sempre politico, mi sembra bello che in teatro non ci siamo sempre e solo Noi, come tu vai spesso dicendo. Mi piace l’idea che i ragazzi conoscano, imparino a confrontarsi, con luoghi pubblici destinati alla bellezza, all’educazione, alla formazione e basta. Per chi non lo ha mai fatto in vita sua, accedere a luoghi “inutili” – sottratti alla logica feroce dell’utilità che domina ferocemente tutte le nostre vite, anche e soprattutto le loro – credo possa essere un’esperienza altamente educativa, un modo per entrare dentro le contraddizioni e la complessità di una società come la nostra. Ed è bello pensare che si possa dedicare del tempo per ascoltare e guardare storie. Questo serve a tutti, pure a noi: non c’è essere umano che non abbia bisogno di catarsi, di trasfigurare e simbolizzare la propria esperienza attraverso Maschere e Personaggi.
Non vedo limiti in linea di principio, nell’essere spettatori, tranne il fatto, potenzialmente frustrante (ma questo lo sperimentiamo sempre a scuola) di sentire di alimentare un desiderio, un immaginario che molti dei nostri studenti, quando saranno del tutto risucchiati dentro le vite “utili”, è un lusso che non potranno forse più permettersi.
Ed è chiaro che il lavoro di preparazione e di accompagnamento nel senso degli spettacoli, da fare prima e dopo, è fondamentale e richiede un tempo accurato. E che si dovrebbe trovare il modo per colmare il più possibile il gap di comprensione linguistica.
Entrare poi in relazione con le istituzioni teatrali cittadine, sensibilizzare teatri, compagnie, attori e registi al fatto che esiste questo nuovo pubblico, credo sia la strada giusta. Poi credo che la pratica dell’essere spettatore possa riverberarsi sulla pratica dell’agire il teatro in scena e nel laboratorio. E, viceversa, mettere i ragazzi nella condizione di sperimentarsi in una messa in corpo e parola di azioni teatrali possa far sì che guardino in un altro modo uno spettacolo da spettatori.

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Come è stata l’esperienza da spettatori dello spettacolo Famiglia?

Come ci siamo già detti, lo spettacolo Famiglia è stato abbastanza difficile per i nostri studenti. Perché il tema era abbastanza sottile e astratto, la messa in scena scarna richiedeva finezza di interpretazione e affidava quasi tutto al potere esplicativo della parola.  Comunque penso che per loro sia stato ugualmente una bella esperienza, per le ragioni che dicevo: entrare, forse per la prima volta, in un luogo interamente dedicato alla rappresentazione della bellezza e del senso umano. E ora tutti sanno di che cosa si parla quando parliamo di Teatro (e prima in tanti non potevano capirlo, anche se riuscivi a dirgli la parola “teatro”in Bambarà o in Pashtu…).
A me, personalmente, è piaciuto molto sentire che la vicenda biografica degli attori/ex detenuti di Fort Apache, era al contempo presente e assente sulla scena. La capacità di trasfigurazione dello spettacolo di Valentina Esposito ha fatto sì che esso potesse parlarmi, che io lo sentissi riguardarmi da vicino, che parlasse di me. E al contempo, mi pare sia riuscito a simbolizzare il tormento dell’estraneità che credo sia proprio ad un detenuto che torna, dopo tanto tempo, alla vita ma non sa più dialogare con la vita, come un fantasma…come nonno Hitler dall’oltretomba.

“Venite dunque e trascorriamo un’ora dilettevole narrando storie, e la nostra storia sarà l’educazione dei nostri eroi” Platone – La Repubblica, Libro II

Luca Lòtano

leggi anche: Oltre il carcere, Fort Apache. È la Famiglia di Valentina Esposito

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