Nu triatu. Corpi cittadini nei workshop di Interazioni|Ctonia

Il laboratorio di visione LeREM nei laboratori del festival condotti da Marta Bellu e Laura Luccioli, Daria Greco, Claudio Larena

foto Carolina Farina

Giuseppe: Nel vernacolo cilentano, la mia lingua madre, il termine “nu triatu“, che tradotto significa Teatro, indica un momento di comunione disordinata, una confusione di corpi e voci in movimento che partecipano ad una cerimonia informale, spontanea e improvvisa. Anche in rumeno, ho scoperto, significa “non ordinato”, come in grecanico, calabrese e siciliano. Attraverso il festival Interazioni|Ctonia curato da Chiasma, con il gruppo di visione coordinato da Luca Lòtano e Zara Kian, ci siamo sentite in una coreografia di lingue e forme diverse e lontane, di “nu triatu” fatto di suoni persiani, armeni, cilentani, francesi, inglesi, bangla, arabi, italiani, egiziani, che con il tempo e la prossimità dei corpi si sono trasformati in una armonia composta da silenzi, sguardi e intese.

A Centrale Preneste per Glitter. Dare. Una parola. Al corpo di Marta Bellu e Laura Luccioli

foto Carolina Farina

La prima tappa laboratoriale e di riconoscimento reciproco l’abbiamo attraversata con Marta Bellu e Laura Lucioli, partecipando al laboratorio coreografico inclusivo per persone con disabilità e non Glitter. Dare. Una parola. Al corpo. Nel cerchio i nostri nomi, una volta pronunciati, sono diventati l’equivalente di un movimento del corpo e, in un sistema a specchio, i movimenti delle  altre persone, osservati e memorizzati, sono diventati i nostri nomi. Come in un gioco di creazione di onomatopee: i gesti e le azioni diventavano suoni, nomi propri di persona, poi interazioni e coreografie. L’azione che il mio corpo ha deciso corrispondesse al suono del mio nome è stato un movimento oscillatorio della testa e del collo, scuotendola energicamente in tutte le direzioni. Per Goli, che mi guardava, era un tentativo di scrollarsi dal corpo delle energie e degli umori negativi.
Ehsan, dopo aver ripensato alla propria parte di training di danza contemporanea fatto assieme, ci avrebbe poi fatto vedere questo video per il quale, in Iran, il direttore generale del Dipartimento dello Sport e della Gioventù della provincia di Khuzestan ha sospeso Asieh Denyari and Ameneh Kaabi. Colpevoli di aver pubblicato immagini di donne in una performance durante una sessione di jumping fitness sulla costa di Mahshahr che in persiano, بندر ماهشهر , significa “città della luna”.

https://women.ncr-iran.org/2022/04/03/female-football-fans-in-iran/

Ripenso a quanto ci dice Marta Bellu, che entrare in contatto profondo con il nostro respiro è come dare un microfono ai nostri organi. E così, lentamente, abbiamo iniziato ad imparare il linguaggio del nostro movimento corporeo proiettando un filo verso il movimento corporeo dell’altra/o. Durante l’incontro/intervista successivo al laboratorio, con il quale la redazione si è confrontata con Marta e Laura ho sentito dire: “è la prima volta che ho parlato questa danza”; “ci capivamo meglio sul palco che seduti intorno ad un tavolo”.

foto Carolina Farina

Ehsan: E’ la prima volta che ho provato questo. Prima, quando ero in Iran, mi sentivo timido per danzare. Però adesso mi sento felice, mi piace provare tanto. Grazie

Dahirou: Le musique, le rap, je l’aime. Parce que dans le pays, la danse… Au Burkina Faso, c’est nous qui créons la danse, la musique rap. Et vous, où vous travaillez en Italie?

Marta: Lavoriamo di base a Firenze, poi però ci spostiamo. Siamo un gruppo di lavoro, il progetto si chiama Iniziali, proviamo attraverso la danza contemporanea a indagare i processi trasformativi sul linguaggio del corpo per generare un contesto aperto e sensibile che poi porta anche a dei formati più performativi. A Firenze ci appoggiamo a vari spazi del comune e con Laura Lucioli abbiamo l’idea di portare la pratica anche fuori in altre città; siamo state a Lugano, a Milano, a a Roma, saremo a Ravenna, a Rosignano. Molti degli esercizi che abbiamo fatto con Laura hanno avuto un esito creativo nella performance I versi delle mani , è tutto un lavoro della gestutalità che parte dal respiro e costruisce sia una coreografia di danza sia una partitura musicale e vocale.

foto Carolina Farina

Luca: Che parole avete visto oggi nei nostri corpi?

Marta: Dare una parola al corpo nasce proprio da quello che abbiamo fatto, da una persona che inventa un gesto, poi gli dà una parola, cerca di descriverlo, cerca di incorporarlo. Si va dentro il cerchio, si parte da zero, si cerca una parola nel corpo, cioè come ci si lascia muovere; io quando intendo parola, dico prima fisicamente, quindi una qualità nel corpo; solo dopo gli si dà una parola, cercando di descrivere più la qualità che emerge, la sensazione che emerge. Quindi può essere “vibrazione”, “rotazione”, “pesantezza”, “terra”. E poi quella parola la descriviamo, oppure un’altra persona descrive quel tipo di movimento com’è, che sensazioni mi dà, che qualità mi da.  Le parole sono tutte le vostre parole. Tu, ad esempio, che parole avresti dato al tuo movimento?

Luca: cercare?

Marta: “Cercare”. Questa parola apre anche una visione per quel gesto, no? Perché allora quel gesto per continuare a cercare ti porta anche in un’altra direzione, nello spazio, in un’altra dimensione. Quindi questo tuo gesto che è partito con le mani magari può scoprire il “cercare” anche con altre parti del corpo, e allora si complessifica quella parola. E tu, Ehsan? Tu facevi questo gesto dell’arco e della freccia. Magari è la qualità del “tirare”, no? O del “colpire”? Cioè ti interessa più il tirare, ti interessa più il colpire, andare lontano? La parola che cerchiamo, e scegliamo, serve anche per inquadrare meglio quel gesto, in che direzione va.

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Luca: quindi anche il verbale ha un ruolo di ricerca, di proiezione del gesto? E che ruolo ha il lavoro che abbiamo fatto insieme anche sul respiro?

Marta: Si, proviamo a esplorare meglio il gesto, trasformandolo, dandogli un nome, ma anche chiedendo all’altro che ti ha imitato, quali sensazioni ha provato e quindi usare anche l’altra persona come strumento di proiezione, di specchio. Riuscire a fare un respiro insieme viene prima di riuscire a fare un gesto. Perché in realtà il respiro è già un gesto, il primo gesto che fai, e se non lo fai non ci sei veramente, non ci sei totalmente. Il corpo che si dimentica del respiro si contrae. Così come quando parliamo molto velocemente, ci dimentichiamo del respiro e tagliamo tantissimo l’aria, perché alla fine parlare è un modo di tagliare l’aria. E non ci diamo la possibilità di finire un discorso, una parola. Alla fine è una cosa molto basilare, però è primordiale, universale.

A Ostudio per Collage di Daria Greco

foto Carolina Farina

Giuseppe: I laboratori del festival sono continuati anche per noi con Collage di Daria Greco. Ero molto curioso di guardare le scelte altre e le immagini ritagliate dalle riviste di geopolitica, come in una rassegna di composizione morale, emotiva e valoriale: notizie e suggestioni da tutto il mondo hanno composto diversi tappeti di immagini che sono poi diventati corpi.

Come ci ha suggerito Luca partecipare a questa esperienza è stato come un andare avanti, ma tornando sempre indietro. Infatti la redazione di LeRE.M, mentre raggiungeva Ostudio si è messa a correre, ci è scappata davanti, ma poi ci hanno aspettati. Dahirou mi stava facendo vedere il gruppo rap che con dei suoi amici ha fondato in Burkina Faso: i Money Gan. E su quelle spalle, sulla magliette di Dahirou, così come in quello che mi stava raccontando, mi è sembrato di vedere un collage anche lì.

Money Gan di Dahirou Bambore

Anche il lavoro della poesia porta spesso a guardare indietro, a ciò che manca e passato, è dietro le nostre spalle, e da lì ci spinge o ci tira.

A Ostudio per Spinte di Claudio Larena

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Luca: Ci racconti com’è nata l’idea di fare un workshop a partire dalle “Spinte”?

Claudio Larena: la spinta è stato un riassunto in termini fisici dell’oggetto e del rapporto con l’oggetto altalena. Questa ricerca sarà poi una scrittura coreografica. La spinta è stata una traduzione, una ricerca che si è aperta a partire da un’indagine attorno a quell’oggetto e che poi ha sprigionato una serie di tematiche diverse tra di loro; il progetto è poi diventato due diverse performance, una più di una parola e una più di movimento, coreografica. Quindi si nasce da lì, ma poi chiaramente non c’è più bisogno di fare riferimento a quell’oggetto, il lavoro diventa una ricerca sul gesto e sul significato ambivalente che può avere e sul risignificarlo, perché la spinta è un gesto che nella quotidianità associamo anche delle violenze che siano piccole o grandi, è un gesto che determina spesso giochi di ruolo, di potere, da quando si è piccoli, ma anche inteso come movimento intenzionale. E si traduce in questa ripetizione costante del gesto, nel tentativo di andare ad attribuirgli diversi significati e modi, che si moltiplicano nella pratica fondamentalmente.

Claudio Larena: Come vi siete sentite? Come avete sentito i vostri corpi stando tanto tempo dentro questo meccanismo che è descritto solo da un gesto, nel suo sviluppo intenzionale?

Goli: It was a nice play, I don’t like to touch someone or be touched but this play made a safe and friendly space to experience something new. When we start the game we lie down on the floor focusing on each part of our body that feels the pressure, and trying to move the pressure to the point that we want sounds to me like some yoga movements. Then we stand on our feet to move unexpectedly and take orders from the combination of our weight pressure and gravity, it was an amazing experience. Through the “game”, we practice to trust and respect each other to work alone in a group. When I was watching from outside I could see that each participant was being matched with the others, not moving the same but less of accidents were happening without any focus or trying, the game that looked like a disorder at first was getting organized.

foto Carolina Farina

Zara: Quando all’inizio abbiamo spinto con il corpo la terra, io ho provato alcune parti che non uso mai per spingere, la pancia, l’orecchio, non avevo immaginato mai come fosse possibile spingere da alcune parti del corpo. Tu pensi che conosci il tuo corpo, però da quel momento capisci che non lo conosci bene, che lo devi ancora scoprire.

Fristha: My perception was this: I am a part of the earth. The pressure from every part of my body enters the ground, it is a two-way pressure.  And still, in the movements that we did as a team, I felt some of the 5 types of shaking.  Pushing with kindness, pusshing beacuse you are not in the mood, with anger, because it is your responsibility to do it, because you should do it with a friend. It was so good for me because it’s my first time I did this game and do this work with another people and when at the first time I push the earth it’s so good for me. because I think we belong to the earth.

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Goli: Maybe you could liberate your body. I think you felt the liberation on the ground. I feel like I was a part of the hearth.

Zara: Io avrei voluto che qualcuno mi spingesse più forte.

Fristha: I think sometimes we need some person and some things we push in our life. I feel that.

Claudio: Quello è un dialogo interno che deve andarsi a creare per sapere fino a quanto puoi spingere e anche quanto puoi abbandonare il tuo peso, fidarti di chi ti spinge, ed è un dialogo che si va a costruire gradualmente stando verso il gesto che gradualmente cambia, si sviluppa, a seconda di come viene esperito. Si, quello che trovo interessante di questo è che per quando da una parte può avere un suo sviluppo più compositivo performativo, dall’altra è come se avesse anche esperenzialmente aperto e accoglie un aspetto direttamente relazionale anche con corpi che non frequentano spesso alcune possibilità dello stare, del movimento e della relazione nrl movimento

foto Carolina Farina

Giuseppe: Abbiamo così terminato la serie di laboratori spingendoci a vicenda, in file ordinate, calibrando per ogni corpo la forza necessaria di cura per andare avanti, generando una scintilla di confidenza che tornerà a farci compagnia. Parafrasando un momento di confronto con il pubblico in Je vous aime di Dania Anselmo e Sara Pranovi, del quale parleremo nel prossimo articolo, alla frase da completare “in principio era…..”, rispondo: in principio era nu triatu, come nel video girato a Roma, durante le manifestazioni per la pace, mentre Abdul R. e la sua compagnia bangladese cantavano e ballavano Bella ciao. Ma questo, ve lo lasciamo solo immaginare.

foto Carolina Farina

Dialogo e interviste a cura di:

Giuseppe Mongiello, Ehsan Mir Shekar, Dahirou Bambore, Howlader Abdur Rahman, Goli Azad, Zara Muradi, Zara Kian, Luca Lòtano, Mehedi Sharif

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