Mahamadou Kara Traore e Carolina Farina, fotografa di scena, parlano di sguardi e del silenzio, tra il Mali, Garage Zero, Roberto Latini e Mariangela Gualtieri
Largo Spartaco. Io, Maki e Kara siamo qui da un paio di ore, giriamo per la piazza e parliamo con le signore che guardano i figli giocare tra uno spettacolo e l’altro. È finito da poco il circo di strada dei Nani Rossi. I bambini salgono eccitati sulle loro biciclette. Con Maki ci sediamo davanti al computer e ripensiamo allo spettacolo di Ascanio Celestini visto la sera prima; poi a un tratto mi giro e vedo Kara sul muretto che parla con una delle fotografe di scena. Li raggiungo, accendo un registratore e mi metto in ascolto.
Carolina: «Ho cominciato facendo foto di scena in questo festival, Attraversamenti Multipli; è stata da subito una continua scoperta perché ci si confronta con spazi differenti, discipline diverse, bisogna esser molto duttili». Concordiamo con Kara il significato della parola “duttile” con la sua nuova definizione che ripete «ovunque ti trovi, avrai una soluzione» e poi Carolina riprende a parlare.
«Non fotografi mai nello stesso modo, ma ogni volta cerchi di capire il contesto e lo sguardo che l’artista vuole che tu abbia con il suo modo di abitare quello spazio. Cerco quindi di entrare in sintonia con l’artista per capire quale possa essere la prospettiva che vuole dare». Intanto chiedo a Carolina come vede Kara con l’obbiettivo della macchina fotografica, e lei fa tre o quattro scatti mentre lui parla.
Kara: «Io invece quando guardo uno spettacolo, la prima cosa per me è il silenzio. Il silenzio che ho dentro e l’attenzione. E poi guardo i movimenti, cerco di capire cosa riguarda, faccio il paragone con gli spettacoli che vedevo quando ero in Africa. In Mali guardavo soprattutto commedia, spettacoli che facevano ridere le persone. Gli spettacoli li facevano, per la maggior parte, nel campo da calcio. Quando c’erano tante persone ci mettevamo sulle tribune, altrimenti stavamo tutti direttamente in campo, guardavamo da vicino, quasi in mezzo agli artisti. Qui qual è uno spazio particolare Carolina?»
Carolina: «Sicuramente qui è Garage Zero. Ha un’architettura molto aggressiva, è uno spazio di cemento, uno spazio recuperato del quale si sente questo desiderio di riconquista del valore. Io volevo però recuperare, appunto, la tua frase sul silenzio. Nella fotografia di scena il silenzio è fondamentale, non puoi scattare quando c’è perché sai che disturberesti l’artista e gli spettatori. E quindi ho acquisito una grande sensibilità nei confronti del silenzio, nel capire il ritmo dello spettacolo, e mi fa pensare la performance in modo totalmente diverso perché aumenta tantissimo l’attenzione. Questa penso sia una delle cose più preziose del fare la fotografa di scena».
Kara: «Si, anche per me. Quando andavo in Mali a teatro, sapevamo che andavamo a ridere, a mostrare i denti, ridevamo sempre, piano piano ho scoperto che il silenzio è un’emozione molto forte, ti fa avere l’attenzione soltanto sullo spettacolo e quindi ti farà sempre capire qualcosa, utile o meno utile».
Carolina: «È uno spazio quasi di meditazione. Ti dà la possibilità di fare il passaggio successivo, prendere qualcosa di molto personale da quello che stai guardando».
Kara: «È come per un monumento, un palazzo: tu lo guardi, e se guardi, guardi, ore e ore, riuscirai a capire qualcosa. Anche una persona. Se io ti guardo di fronte, ti guardo a lungo, ci sarà qualcosa che capirò».
Un’ora dopo scendiamo la rampa di Garage Zero, io, Kara, Maki, Carolina e tutta la piazza. Lì dentro, lì sotto, Roberto Latini legge Mariangela Gualtieri e mi tornano in mente le parole di Kara, mentre ascoltiamo in silenzio la poesia,
“e non mi spiego perchè
mi trovo in questo covo rivoltato
in questa fossa con gli orchi attuali
in questo lato barbarico della specie,
e non so perchè stando a occidente non si
ode quell’alleluia delle cose”.
Mahamadou Kara Traore, Carolina Farina e Luca Lòtano